L'attenzione dell'opinione pubblica sulle tematiche ambientali è andata crescendo nel tempo e se prima si focalizzava su consumi e consumatori, oggi investe anche la produzione e, dunque, le aziende. Alle imprese si chiede fortemente di contribuire a ridurre l'impatto inquinante delle loro attività sull'ambiente in ogni fase, dai cicli di produzione al trasporto merci.
Nel recente report diffuso dal Plastic Waste Makers Index della Minderoo Foundation, organizzazione filantropica australiana, si evidenzia come venti produttori di polimeri nel 2019 abbiano generato il 55% di tutti i rifiuti di plastica monouso a livello globale. Di questi venti finite nella lista delle maggiori produttrici al mondo di rifiuti plastici monouso, quattro sono italiane.
Nel 2019 quasi 130 milioni di tonnellate di plastiche monouso sono state bruciate, seppellite in discarica o buttate direttamente nell'ambiente senza alcun trattamento. Eppure questi rifiuti contengono additivi chimici come i plastificanti, che pare siano causa di una serie di problemi di salute per gli esseri umani, relativi alla riproduzione.
Nonostante tutto, pochissima attenzione viene ancora prestata alle imprese produttrici di polimeri, i “mattoni di tutte le materie plastiche”, quasi solo da combustibili fossili. «Tali aziende sono la fonte della crisi della plastica monouso: la loro produzione di nuovi polimeri "vergini" da materie prime di petrolio, gas e carbone perpetua la dinamica “take/make/waste” dell'economia della plastica», si legge nel rapporto.
Questo accade anche perché per molte imprese la transazione ecologica rappresenta un ripensamento del proprio modello di business: spesso il passaggio a un sistema sostenibile deve essere sostenuto partendo da una “transizione economica” e questo molte volte basta per rallentare azioni in questa direzione (burocrazia e marasma normativo poi, fanno il resto). Ancora prima, tuttavia, dev'esserci una transizione culturale, una forma mentis ecologica che generi un vero senso di responsabilità d'impresa, che ad oggi non sempre è presente. Se lo fosse probabilmente i legislatori non avrebbero accelerato i loro interventi come invece sta accadendo.
Ad aprile il Senato ha approvato un Ddl di recepimento della legge di delegazione europea 2019-2020, che prevede la messa al bando di alcuni oggetti in plastica monouso come piatti, posate, cannucce e bicchieri. L’obiettivo è privilegiare prodotti e sistemi riutilizzabili in base all’obiettivo 12 di sviluppo sostenibile dell’Onu. Inoltre il 21 aprile la Commissione europea ha pubblicato la proposta di modifica della Dichiarazione non finanziaria (Dnf), detta anche CSRD (Corporate Sustainability Reporting Directive), introducendo una doppia estensione dell’obbligo che vedrà aumentare significativamente il numero delle aziende tenute a pubblicare la Dnf: dalle attuali 10.000 circa, si passerà a 50.000. Le nuove norme dovrebbero entrare in vigore a partire dal 1° gennaio 2023 (per le Pmi il periodo transitorio arriverebbe fino al 1° gennaio 2026).
Ma a che punto sono le aziende italiane rispetto gli obiettivi e le direttive del Green Deal europeo?
Secondo il Rapporto nazionale sull’economia circolare in Italia 2021 realizzato dal CEN-Circular Economy Network, l'Italia è in prima posizione per la produttività delle risorse. I dati, che fanno riferimento al 2019-2020, mostrano che il nostro Paese crea il maggiore valore economico per unità di consumo di materia. Buona è anche la produttività energetica: 8,1 euro prodotti per kg equivalente di petrolio consumato. La produzione pro capite di rifiuti urbani è rimasta costante a 499 kg/abitante, contro una produzione media europea di 502 kg/ab. Il riciclo dei rifiuti urbani nel 2019, secondo i dati ISPRA, è del 46,9% e posiziona l’Italia al secondo posto, dopo la Germania. La percentuale di riciclo di tutti i rifiuti è nettamente superiore alla media: 68% contro il 57% dell'Europa. Anche rispetto il tasso di utilizzo circolare di materia, l’Italia è superiore alla media dell’UE, ma resta inferiore a Paesi Bassi, Belgio, Francia. Tuttavia, a livello di numero di brevetti depositati, siamo il fanalino di coda fra le grandi economie europee.
Insomma,imprese e microimprese, in realtà, sono già sotto la pressione ESG (Environmental Social Governance) del mercato, così come le imprese del mercato Aim: tutti sanno di dover perseguire gli obiettivi di sostenibilità, tra cui il fornire informazioni non finanziarie legate ai fattori ESG. Prima ancora del legislatore, a richiederlo sono gli investitori: banche, assicurazioni, clienti e buyer. Il rapporto “Innovare per la crescita sostenibile: strategie di impresa e politica pubblica”, pubblicato nei giorni scorsi da Assonime, analizza le strategie concorrenziali in materia ambientale di alcune delle principali imprese operanti in Italia in vari settori. L’analisi delle esperienze delle imprese pare confermare questa tendenza. Emerge infatti, che la sostenibilità ambientale è entrata a far parte delle dinamiche concorrenziali.
I dati ci dicono che le imprese del settore elettrico in Italia stanno utilizzando le tecnologie basate sull’analisi dei dati per migliorare la sicurezza dell’offerta. Attraverso il deep learning alcune imprese stanno aumentando la propria capacità di prevedere la produzione di energia eolica, rafforzando così la propria competitività in vista dell’evoluzione del mercato elettrico in sessioni di mercato sempre più ravvicinate tra loro. Esistono realtà italiane che hanno promosso hub tecnologici in grado di consentire agli agricoltori di avvalersi del know-how delle imprese italiane nelle tecnologie satellitari per monitorare il ciclo di crescita delle coltivazioni, in modo da agire solo quando necessario, producendo quindi minori emissioni. Un ulteriore esempio lo costituiscono le imprese vinicole con cantine autonome dal punto di vista energetico e certificazioni Carbon Footprint (per controllare energia e materia direttamente e indirettamente consumate nel processo e ridurre le emissioni di gas connesse) e Water Footprint (per razionalizzare l’uso dell’acqua). Persino il settore tessile, inquinante per eccellenza, sembra andare in questa direzione: molte industrie della moda infatti realizzano capi utilizzando poliestere riciclato e producono denim utilizzando la tecnologia waterless.
In Italia il gap tra la conoscenza circolare e il contesto legislativo è enorme e resta indietro rispetto lo stato delle cose. Fortunatamente la recente spinta europea sul tema, sarà perlomeno recepita nel PNR (Piano Nazionale Resilienza). Nel complesso si può sostenere che, se agli occhi della maggior parte della popolazione la sostenibilità nelle aziende resta prerogativa delle sole startup, un valore aggiunto e/o una avanguardia, in verità la maggior parte delle imprese sa bene che la gestione della sostenibilità è un driver di competitività e di successo senza il quale non possono più pensare di esistere. Per tutti ormai si tratta di definire il “quando” e non il “se”gestire le proprie risorse (e i propri rifiuti) in modo sostenibile, persino per i settori carbon-intensive. Un obbligo di gestione e rendicontazione d'altronde già previsto nella road map dell’Unione Europea per raggiungere la carbon neutrality. Molte imprese, infatti, si stanno attrezzando per avviare il processo di rendicontazione non finanziaria già nell’esercizio 2021. Che piaccia o meno il mercato e le normative stanno andando in questa direzione: saranno meglio collocate, quindi, le imprese capaci di seguire la strada della sostenibilità e della trasparenza, traducendo questa tendenza in pratica aziendale.